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venerdì, 26 aprile 2024
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Nadia Spallitta

Ultimo aggiornamento

Claudio Collovà

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Claudio Collovà – regista e autore teatrale

 

Di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi spettatori,
non vorrei io stesso dire certe cose. Mi autocensuro.
Pier Paolo Pasolini

“Insomma, l’antimafia come strumento di potere.
Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico,
retorica aiutando e critica mancando.
E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia… “
Leonardo Sciascia

Premessa

Quanto qui esposto esprime semplicemente un punto di vista artistico sul fare teatrale. E’ dettato da un disagio vero che nasce dall’equivoco oggi così diffuso nella definizione di arte contemporanea e di teatro contemporaneo in particolare. Le etichette possono essere di conforto e possono rendere chiare le proprie tensioni creative. 

Io non le amo, e non mi sono abituato alle esigenze mediatiche. L’iniziativa ‘Facce di Mafiosi’, di Sgarbi e Toscani, racconta meglio di quanto faccia io con parole inadeguate quanto intendo. Dietro la dichiarazione: “nessuna intenzione celebrativa, solo un modo differente di parlare del crimine”, provo solo una profonda noia. E’ il supporre arrogante che questa idea – atta forse a nascondere con un complice gesto innanzi tutto l’inadeguatezza artistica della pittrice – possa essere provocatoria e quindi (sic!) contemporanea che pone seri dubbi sull’onestà intellettuale degli ideatori. Attrarre, stupire, vendere, e fare tournè in nome della mafia, diventa paradossalmente per conto della mafia, poiché esiste e non da ora anche un mercato che si muove oscillando il petto come farebbe un mafioso che cammina sul corso principale di un piccolo paese o di un quartiere urbano. Sono queste forme di lotta che producono denaro per umilianti rappresentazioni e piegano gli ‘artisti’ all’occasione. La parola contro non è mai come in questo caso suonata obsoleta e marcia. Qui si ambisce alla esibizione e si rende la ferita necessaria all’anima, superflua e inadeguata ai tempi. E’ l’inattuale quindi che diventa uno spiazzante moto e turbamento dell’anima e non quest’attuale voluto e legittimato dalla propaganda, dalle copertine comprate e dal consenso generalizzato e non impegnativo o rischioso da nessun punto di vista.
 
 
Kantor sosteneva con forza che varcare la soglia del teatro era una azione da compiersi a proprio rischio e pericolo: poteva accadere infatti di uscire da quel luogo del tutto modificati e di dovere ricominciare daccapo. Uno sgretolamento delle certezze è forse sempre in agguato o quanto meno è auspicabile che avvenga. Ed è a questo che mi riferisco, e alla sua assenza dedico queste mie righe. La mia nota è particolarmente focalizzata sul teatro, ma voglio precisare che non è quell’arte in particolare ad essere chiamata in causa, ma tutte le espressioni artistiche.
Il paradosso di Sciascia, se tale lo si vuole intendere, può benissimo essere applicato a quanto dico: non basta parlare di Mafia per compiere un atto artistico. Le due cose non vanno di pari passo, oserei anzi dubitarne fortemente. E non dovrebbe costituire vantaggio alcuno per il mercato. Eppure la frequenza con cui si mettono in scena spettacoli mafioso-light, produce un assordante frastuono in cui non trova spazio ormai un immaginario alternativo, o se trova spazio, viene appena ascoltato e in modo distratto, così da rendere il fenomeno mafioso doppiamente odioso a chi sogna altri mondi possibili di indagine artistica.

Mi aspetto di essere equivocato e mi farà persino piacere.

Gli spettacoli mafioso-light.

Moltissimo teatro prodotto in Sicilia e non solo, ma in particolare quello che potrebbe essere definito frettolosamente e superficialmente ‘Teatro Siciliano’, non può fare a meno dell’immenso immaginario che si riferisce alla mafia. La mafia è il più grande sponsor nella nostra città dello spettacolo dal vivo. Sponsor inattivo da un punto di vista economico, ma pressante e presente nella forma e nella sostanza per quello che riguarda stimoli e idee. Idee ‘povere’ per lo più, fin dall’inizio, restringendosi il campo essenzialmente a due categorie di protagonisti: le vittime della mafia e i mafiosi stessi. Un paio di settimane fa ben tre spettacoli a Palermo e due a Catania raccontavano di fatti legati alla nostra benemerita associazione criminale. Monologhi in abbondanza, in cui gli attori con volto afflitto – se vittime – o con volto arcigno – se criminali – fingono e declamano dolore o violenza per le numerose, ahimè infinite, storie di morte, sofferenze, notti insonni e efferati assassinii. Il pubblico è partecipe – dicono le cronache – e assiste partecipato, come a un funerale. E a un funerale comunque si chiami il morto, ci si comporta bene: in teatro l’applauso commosso è scontato e non si nega a nessuno e prescinde solitamente dalla qualità di ciò a cui si  assiste. Si applaude, secondo questa aberrante logica, anche l’attore che tanto bene ha reso il volto del carnefice: un ‘sembra tale e quale’ del violento, ma pur sempre uomo, rappresentato in tutti i suoi aspetti umani di fragilità, solitudine, pentimento. In ogni caso sempre di mimesi rappresentativa stiamo parlando, di un tentativo fedele di riproduzione della realtà – solo che (sic) siamo a teatro e tutta quella verità suona inverosimile. Sulla scena mafiosa-light, e spiegherò dopo perché così la definisco – quindi entrambe le maschere, così come ha fatto il teatro greco, quella di chi è morto per mano assassina e quella che la mano l’ha alzata con la pistola. Entrambe queste maschere, sotto la magica illuminazione dei proiettori teatrali, diventano figure eroiche e coraggiose. Il realismo è schiacciante, il surrealismo del tutto rifiutato, nessuna visionarietà anche a causa di ingredienti sempre ripetuti in dosi che hanno nella quantità e nell’ordine alcune variabili.

First but not the most, l’elenco.
C’è sempre un elenco che spunta a un certo punto della rappresentazione, immancabile e sempre più lungo purtroppo, a volte confuso e privo di coerenza, in cui si mischiano nomi, cognomi e soprannomi di innocenti esplosi, colpevoli assassini, affiliati in odore di assoluzione, poliziotti corrotti e poliziotti onesti, magistrati blindati, pentiti muffuti ma utili e anche, naturalmente, sfortunati passanti. Nomi di un cimitero dalle vaste dimensioni che ha sotterrato ormai qualche decina di migliaia di persone, da entrambi i lati della barricata, in questa guerra che tanta attrattiva esercita sugli artisti. Un breve elenco può riempire di commozione gli astanti per buoni venti minuti o più se si vuole, con buona pace dello sforzo creativo. Anche se recitato male, scimmiottando che so, la voce dello speaker televisivo o quella dell’Istituto Luce, esso verrà premiato dalla lacrima furtiva.

I processi ovvero la drammaturgia. O viceversa.
I lunghi resoconti dei processi, un copia e incolla dai nostri quotidiani che li pubblicano per lo stesso motivo e cioè soddisfare la curiosa morbosità del lettore, ma almeno nel reale, àmbito delle pagine di un quotidiano e senza nessuna pretesa di spacciare come finto ciò che è vero! I dialoghi nel teatro di mafia-light sono di un avvilente mimesi, di solito tra mafiosimagistrati, mafiosivittime, vittimevittime, pentitiirriducibili, e in tutte le combinazioni che a me sfuggono, ma che non sfuggono ai drammaturghi, alcuni dei quali ricevono premi ambiti per la loro meritoria azione nel campo del teatro civile. Se lo spettacolo è povero, la voce del magistrato è un fuori campo, o le risposte del mafioso includono la domanda, si risparmia molto sulle paghe, e si può facilmente dare l’impressione della presenza attraverso il luccichio negli occhi. Molto amate nella composizione drammaturgica sono le confessioni: i pentiti sono protagonisti degli spettacoli mafiosi-light grazie alle loro lunghe e contorte analisi che giustificano il loro salto di coscienza. Ne esistono davvero tanti, alcuni commoventi e alcuni zeppi di crudeltà efferata, in cui si spiegano i dettagli di morti atroci. Questi monologhi – ahimè si dice proprio così una volta che si varca la soglia del teatro – possono da soli reggere un intero spettacolo! – ahimè si dice così anche in questo caso. Ma molto ricercati sono i testi costruiti sulla solitudine del magistrato, sul dolore della vittima, sull’innocenza del bambino, sull’atto di accusa con cifre alla mano dei giornalisti, o sugli amori impossibili tra donne per bene e mafiosi assassini, come accaduto a Tristano e Isotta o Lancillotto e Ginevra. Morti o vivi non importa, ciò che importa è la denuncia. Il pubblico alla fine applaude commosso. Nessun dubbio sullo spettacolo in quanto tale. Ogni perplessità passa in secondo piano.

La lingua.
Interpretati con un forte accento siciliano del tutto inesistente nella realtà. Questa, per inciso, sarebbe l’unica fuga nell’illusione del linguaggio teatrale e nel suo meritorio e legittimo debito con la surrealtà, se fosse consapevole, ma purtroppo non lo è. Si spaccia per vero quell’accento, quello strascicamento, quel raddoppio delle erre, quella durezza delle zeta e così via, fino a quella tipicamente intonazione cosi imperante nel cinema mafioso-light, mai, ripeto mai, sentita in nessun luogo della nostra città, in nessun vicolo o quartiere, in nessuna intercettazione telefonica, in nessun resoconto audio della polizia, e qui viene da ridere per il paradosso. Chi parla quella lingua? Nessuno. Chi è costretta ad ascoltarla? Una sola categoria: gli spettatori innocenti (ma neanche tanto, poi) di uno spettacolo mafioso-light. Sono intonazioni sospese, ascendenti, sempre interrogative, spezzate, gutturali e trascinate. Oppure lamentose, piangenti, specie nelle donne, in un palermitano orecchiato chissà dove. E’ questo l’effetto sonoro più inverosimile che piace tanto al nord, in luoghi geografici che hanno contribuito molto all’affermarsi di una simile – ripeto –  inconsapevole invenzione.

Di tutto questo il Teatro Siciliano, – non tutto per la verità perché da questa aberrazione si salva il Teatro Italiano con casuale residenza degli artisti nel territorio siciliano, – si nutre da tempo. Non sono esenti gli stabili non sono esenti i giovani gruppi. Ma non è esente l’arte di stato in genere. Più del teatro può il cinema e non mi avventuro in questo campo perché il ciarpame prodotto avrebbe bisogno di molti tomi. Migliaia di attori vedrebbero il loro curriculum assottigliarsi repentinamente se si togliesse loro le partecipazioni ai film di mafia-light. Ma in fondo i concetti espressi sono gli stessi e applicabili con facilità alla settima arte. Con l’aggravante di una diffusione di gran lunga più potente rispetto al teatro.

Quando mi capita di assistere ai ricatti degli spettacoli di mafia-light, esco di solito depresso soprattutto per la mistificazione con cui si auto-benedicono anti-mafiosi. O meglio ancora, contro la mafia. Naturalmente ne hanno tutte le intenzioni, gli artisti coinvolti non possono in nessun caso essere dei criminali in una pausa ludica, il pubblico che applaude è colpevole solo perché non distingue le intenzioni con gli effetti, ma quello che io di solito avverto è un senso di totale svuotamento dell’anima.
Basterebbe, mi dico, un soffio di autentica poesia liberatoria per fare un passo di libertà e di affrancamento. Basterebbe una bolla di bellezza e di visionarietà per allontanarmi dai bassifondi melmosi e schifosi della mafia. Basterebbe un prova di coraggio da parte di interpreti coraggiosi per riempire l’anima mia di ricchezza. Come dire che basterebbe una creazione, per sentirmi parte di una umanità libera dal genocidio culturale perpetrato in questa nostra Palermo felicissima.

Perché li chiamo spettacoli light?
Avete mai sentito un mafioso parlare di qualche spettacolo teatrale di mafia-light che lo ha particolarmente disturbato? Che ha provocato crisi di coscienza e improvvisi cambi di esistenza? Un mafioso che ha giurato vendetta contro un regista, un cast di interpreti, un produttore? Io no. Non ricordo proteste né deboli né vibranti. I mafiosi uccidono sul serio le persone seriamente pericolose. Uccidono i poeti, forse, ma quelli veri che non usano certo il loro stesso linguaggio in una cornice di finzione, ma che liberano le coscienze con i loro versi, commuovono le platee con la bellezza, abbattono l’ignoranza con la passione dei loro tentativi artistici.
Se mi chiedessero quale dei miei spettacoli è contro la mafia, non capirei la domanda. Lo sono tutti, ovviamente, ma in particolar modo quelli più riusciti, tutto qua. Può la lettura di un buon libro allontanarmi dalla violenza? Io dire di si, certo che si. Può l’arte di Bunuel essere definita anti-mafiosa. Io direi di sì, certo che sì, anche se nessun critico lo direbbe mai, perché lo ritiene scontato e ovvio. Essere in contatto con il sogno di uno spettacolo di Kantor, non è di per sé un passo deciso verso una esistenza migliore? Perché io vado in un luogo con il cuore aperto, un luogo così importante per l’anima degli uomini, e mi ritrovo immerso in una rappresentazione di scarso livello in cui il linguaggio non si solleva un centimetro da terra, in un siciliano odioso e che mi parla tutto il tempo con povertà di spirito? Quello che intendo è che gli spettacoli di mafia-light, il cinema di mafia-light, servono soltanto a non riconoscere più che dobbiamo combattere in ben altri campi e non certo rappresentare la bruttezza con un occhio avido rivolto al mercato.
Mi sono sempre chiesto perché così tanto teatro e cinema, ma anche tanti romanzi, siano così innamorati della mafia. La risposta è sempre la stessa e la conosco bene. E’ un problema di mercato ed è molto legato al nostro territorio. Il teatro che nasce in questa città deve essere ‘riconoscibile’, deve ‘appartenere’. Alcuni anni fa mi capitò a Milano di interrompere una intervista sul nascere. Il recensore aveva iniziato con la domanda: “Come mai un palermitano mette in scena La terra desolata di Eliot?” Non ero offeso, ero solo stupito e disarmato. E giuro, anche se non ne farò mai il nome neanche sotto tortura, che non si trattava di un critico sconosciuto o poco potente. Se fossi di Grosseto, potrei?
Questo mio scritto potrebbe offendere soprattutto la sinistra perbenista. Quella che dice che anche questo serve per allargare la coscienza e ricordare, e smettere di dimenticare, e commemorare, ed essere presente, accorrere quando tutto in teatro è riconoscibile, urlato, chiaro, spiegato e raccontato. Guai ad alzare di un po’ la complessità della percezione. Alla fine tutto questo teatro, tutto questo cinema, tutta questa tv, che ha come l’unico materiale il ciarpame della crimanilità organizzata, ha un solo merito: quello di rendere non così drammmatico il fenomeno, ma di portarlo con esibizionismo là dove non dovrebbe mai stare, in un luogo in cui è possibile confondere le ombre con la realtà, convivere con le prime e dimenticare che il sangue versato ha l’odore vero della morte e non quello della salsa di pomodoro. E a rendere evanescente l’orrore, vendendolo per un tot di euro IVA esclusa.

p.s. ricevo da amici di teatro – del tutto innocenti – informazioni su un casting che a giorni verrà tenuto a Palermo. Tutti gli attori con precedenti esperienze sono invitati a partecipare. Il film andrà sulla 7. Il titolo? ‘Città criminali’, e Palermo merita un bello sforzo produttivo per ribadire il suo primato artistico.

p.s. II – Gomorra è un ottimo libro di inchiesta. Saviano è in pericolo di vita per questo.

p.s. III – E’ stato appena pubblicato un libro e recensito con pomposa verbosità che indaga e storicizza il cibo consumato dai mafiosi in tutte le epoche e in tutte le occasioni, con ricettario annesso.

Mi fermo qui. I p.s. potrebbero essere infiniti.

Regista e autore teatrale, Claudio Collovà è nato a Palermo. I suoi lavori sono stati prodotti da Teatridithalia di Milano, dal Festival sul Novecento di Palermo, dal Politecnico di Roma, dal Teatro Municipale di Bamako (Mali), dal Teatro Garibaldi di Palermo Unione dei Teatri d’Europa, dal Teatro Biondo Stabile di Palermo, dal Deutsche Theater di Berlino, dal Wihlelma Teater di Stoccarda, dal Teatrul Mic di Bucarest. Molti dei suoi lavori sono stati presentati in festival internazionali di teatro in Italia e in Europa. La sua poetica, principalmente legata alla pittura, alla fotografia e alla fisicità dell’attore, si incrocia spesso con la danza e trae origine da fonti di ispirazione non solo teatrali. Con la coreografa Alessandra Luberti dirige a Palermo, Officine OURAGAN, spazio dedicato alla ricerca teatrale e coreografica e alla formazione.




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